domenica 24 novembre 2013

Il declino della Big Ten

Un Gophers-Badgers degli anni '40
Fino agli anni '80, vincere la Big Ten equivaleva ad avere grandi possibilità di diventare campione nazionale. Ben 13 volte i campioni della più vecchia conference della NCAA, sono poi risultati campioni nazionali. Dagli anni '80 questa possibilità si è ridotta ad un lumicino, fino a scomparire dal 2002 in avanti.
So che rischio la figuraccia da qui a poche settimane con Ohio State in forte corsa per il BCS Championship, ma i numeri parlano chiaro: la rivalità tra Big Ten e SEC sta inesorabilmente scivolando a favore di quest'ultima.
Quantificandola in semplici bocce di cristallo, proprio l'attuale ultima (forte) speranza della Big Ten, ovvero Ohio State, è l'ultima vincitrice ormai più di un decennio or sono, mentre negli ultimi anni ben sette titoli sono finiti giù al sud compreso il BCS Championship del 2012 dove si sfidarono addirittura due squadre della stessa conference: Alabama e LSU.
Tuttavia, quando si tratta di entrate, la Big Ten non ha problemi a tenere dietro la grande rivale, generando più di 315 milioni di dollari di entrate nella sua ultima dichiarazione dei redditi (anno fiscale chiuso al 30 giugno 2012), mentre la SEC è quarta nelle entrate (circa 270 milioni dollari, secondo Forbes) dietro anche a Pac-12 e ACC.
Eppure, per quanto riguarda l'appeal dal vivo, la tendenza si inverte: durante la stagione 2012 giù al sud ci sono stati ben 75.538 tifosi a partita, nella Big Ten 70.040, Nessun altro campionato ha in media più di 60.000 spettatori a partita. Questo dimostra che parlando di spalti, oppure di schermi televisivi, Big Ten e SEC sono senza dubbio i due marchi più grandi e popolari in college football, e questo è ciò che rende l'arretramento tecnico della Big Ten così difficile per i suoi tifosi da digerire.

Evidentemente i dollari non sono tutto, come spesso succede nello sport.
"Sarebbe davvero difficile comprare un campionato nazionale in college football ", sostiene il direttore atletico di Michigan, Dave Brandon, che sovrintende uno dei più grandi e più ricchi dipartimenti atletici nel paese, che quest'anno ha rovinosamente fallito la stagione, "Ci sono un sacco di altre cose che portano al successo nel mondo del football. C'è la tradizione e la cultura e gli stimoli, e fortuna e abilità nel reclutamento e nella consistenza".
Tuttavia, come sostiene Jim Phillips di Northwestern
"C'è una precisa correlazione tra le risorse e la probabilità di successo. Certamente non garantiscono il successo, ma se si è sottodotati economicamente, ci si avvia verso una strada che rischia di non soddisfarti e di non centrare gli obbiettivi che ti sei dato".
Eppure la Big Ten non sembra avere problemi di risorse. Sei programmi della Big Ten hanno finito nella top 20 a livello nazionale in termini di ricavi e spese nel 2012, secondo i dati di USA Today, e ad esclusione di Northwestern che non può generare ricavi in quanto istituzione privata, tutte le undici scuole sono tra le prime 35 in fatto di bilancio.

Uno degli aspetti più importanti è il tipo di attività sportiva che esercitano le università nell'ambito della NCAA: i dati legati alle entrate delle sezioni sportive per l'anno 2012 mostrano che per la SEC le entrate del football sono superiori a quelle di altre grandi conference, circa il 59% di tutte le sue entrate atletiche. Big Ten, Big 12 , ACC e Pac-12, di contro, generano tra 46-52 per cento dei loro ricavi dal college football. Questo si amplifica quando si sovrappone al numero medio di sport universitari sponsorizzati a cui partecipano le università: Big Ten 24, ACC 23, SEC 20, Pac-12 19,5, Big12 18.
Se le università fossero delle imprese, il consiglio cinico sarebbe di tagliare gli sport poco redditizi per concentrarsi su quelli che lo sono di più. Ma i programmi atletici larga base sono una parte importante dell'identità della Big Ten, è quindi questa filosofia ad ostacolare l'arrivo di risultati proporzionali al denaro che producono?

Probabilmente un aspetto che non va sottovalutato è lo staff che ruota attorno al capo allenatore, e che numericamente si sta gonfiando un po' in tutti i programmi, specialmente in quelli che hanno ambizioni. Gli staff si rimpinguano soprattutto in profili legati al recruiting, e sebbene ci sia una limitazione a nove assistenti allenatori per squadra, non vi sono vincoli per il personale fuori campo, ormai assunto con definizioni esotiche come assistenti ai giocatori e sviluppatori dei giocatori... per dare un'idea, Alabama ha destato molto scalpore con i suoi 24 (ventiquattro!) uomini di personale noncoaching, che ha dato una forte mano alla squadra nella conquista dei tre titoli nazionali negli ultimi quattro anni da parte della squadra di Nick Saban.
Tuttavia Gene Smith, direttore atletico di Ohio State, è convinto che l'elefantiaco staff dei Crimson Tide non sia esattamente l'obbiettivo da perseguire, a sua detta "Un sacco di quei ragazzi dello staff di Alabama, scommetto che non sono al recruiting, ma stanno a guardare filmati", la vera buona sorte dei college SEC è la possibilità di avere giocatori di alto livello reclutabili nell'arco di non più di 150 miglia, ovvero High School di valore, che formano ragazzi bravi, ciò che negli anni d'oro era il carburante della Big Ten. Questo fattore demografico amplifica la miopia nel cogliere i talenti da parte delle università Big Ten: vero che solo cinque ragazzi scelti al primo giro del Draft sono della loro zona, ma di questi solamente due sono stati selezionati, gli altri sono stati costretti a ripiegare su programmi minori come Eric Fisher a Central Michigan.
La conseguenza quindi dev'essere non uno staff più grosso, che visiona centinaia di ragazzi nella speranza di trovare il famoso "diamante grezzo", ma uno staff più duttile, strategicamente più scaltro, che possa avere più tempo per muoversi dove attualmente si sfornano più talenti, in posti come Texas o Georgia, come ha voluto Smith per il suo coach Urban Meyer.

Combattere la tendenza dei migliori prospetti a rimanere vicino casa, non è una delle sfide della Big Ten, ma è L'UNICA sfida da vincere assolutamente.
L'incredibile successo della U negli anni '80, Florida State negli anni '90, e ora Alabama hanno cambiato la percezione del paesaggio del college football, le scuole del sud sono ormai percepite come i più performanti programmi BCS, le prime fabbriche di talenti NFL: praticamente la metà del primo giro del Draft viene dagli stati legati alla SEC. A questo aggiungete che paiono essere le più divertenti, con climi goduriosi... Perché "ghiacciarsi le chiappe" (Cit. Shaka) e soffrire per una stagione 7-6 in Michigan quando si può festeggiare e andare 13-0 ad Alabama? Un sacco di ragazzi ora la pensano in questo modo e sarà molto difficile per la Big Ten di cambiare queste percezioni e recuperare il terreno perduto. La conference al Draft 2013 ha rischiato di non vedere nemmeno uno dei suoi ragazzi selezionato al primo giro, fino a che i Dallas Cowboys hanno chiamato il centro di Wisconsin, Travis Frederick, con il 31st pick, che rimane il peggior risultato per la Big Ten da quando esiste il Draft.

Questo deve far pensare anche al tipo di gioco da proporre: la SEC ha preso la via pro-style, la Big Ten si è spostata su un run-heavy game oltre-tackle, implementando la option è prediligendo la mobilità del QB a discapito della precisione (e della frequenza) del lancio. Anche con l'avvento della pistol nella NFL e l'ascesa di Colin Kaepernick, Russell Wilson, Robert Griffin, la maggior parte dei migliori giocatori d'attacco della Big Ten non sono fondamentali. Il miglior quarterback nel 2012, Taylor Martinez (guarda caso di Nebraska) era junior non ha nessuna possibilità di giocare come quarterback nella NFL a prescindere. L'altro quarterback, Denard Robinson, sta cercando di riciclarsi come wide receiver. Le'Veon Bell e Monte Ball, top running back della conference, fuori dal primo turno 2013. È innegabile che se si vuole convincere un ragazzo a venire a giocare nella Big Ten, non gli si possono solo promettere tre o quattro anni di soddisfazioni collegiali, ma gli si deve far intravedere un futuro da pro.
Per il resto, ad una conference come la Big Ten, non resta che continuare il suo lavoro sui brand che sono indissolubilmente legati alla storia del college football, non ultimo con l'avvento di Big Ten Network, e l'ingresso di Nebraska che ha fatto allungare le mani della conference anche nel profondo centro degli States, anche se le nuvole all'orizzonte sono sempre le stesse: se non si vince, prima o poi l'interesse calerà e scoppierà la "bolla atletica" come l'ha definita Morgan Burke di Purdue, ovvero il corrispettivo sportivo della catastrofica bolla immobiliare. Con conseguenze, ovviamente, tutte da verificare.

Leggi tutto l'articolo su Minnesota @ Wisconsin su endzone.it

martedì 12 novembre 2013

I 500 dollari di Pudge Heffelfinger

Nel 1960 un uomo conosciuto solo come "Nelson Ross" entrò nell'ufficio di Art Rooney, il presidente dei Pittsburgh Steelers della National Football League. Dopo i convenevoli, l'uomo diede Rooney un dattiloscritto di 49 pagine sugli albori del football pro. L'esame del testo, fatto dai giornali dell'epoca, fece emergere soprattutto la notizia che il primo giocatore professionista di football americano in realtà era stato Wiliam "Pudge" Heffelfinger, originario di Minneapolis ed ormai morto sei anni prima a 86 anni dopo aver allenato Cal, Lehigh e Minnesota ed aver introdotto nella costa ovest il moderno gioco del football che da quelle parti, a fine '800, era ancora molto simile al rugby.
Heffelfinger era stato una imponente guardia (oltre 1.80 per oltre 90 chili) che in quell'epoca pionieristica aveva giocato per l'Università del Minnesota prima ancora di finire la High School. Tre volte All-American a Yale, allenato nel triennio 1889-1891 da Walter Camp, aveva sviluppato l'arte di quello che sarebbe diventato poi il "blocco" ed aveva continuato poi l'attività di football amatoriale con la Chicago Atletic Association, in cui aveva percepito dei rimborsi spese come era uso al tempo, ma che era stato poi ingaggiato per giocare per Allegheny il 12 novembre 1892 dietro compenso di $ 500 ($ 13.000 circa al giorno d'oggi). Fino a quel documento, era stato John Brallier, della Latrobe Athletic Association, ad essere considerato il primo giocatore di football professionista: poco più che sbarbatello, era stato contattato da Latrobe per sostituire all'ultimo minuto il loro quarterback con problemi di "contemporanea" con il baseball, ed aveva ricevuto 10 dollari a partita prima di dedicarsi al football universitario di lì a poco. Brallier era morto proprio nel 1960 ancora convinto di essere stato il primo giocatore ufficialmente pagato.
Vista la notizia a che pareva essere spuntata fuori da questo dattiloscritto, la Pro Football Hall of Fame si mise ad indagare e presto scoprì una pagina strappata da un conto del 1892 preparato dal direttore di Allegheny, O.D. Thompson, che includeva la voce "Game performance bonus to W. Heffelfinger for playing (cash) $ 500."
Anche se il pagamento non poteva essere verificato perchè contante, la Pro Football Hall of Fame, stabilì che Heffelfinger era stato il primo giocatore professionista di football americano documentato. Non contenti, scoprirono anche che il Pittsburgh Athletic Club aveva in precedenza offerto 250 dollari a Heffelfinger per giocare con loro in quella gara, sentendosi rispondere che non era sufficiente per rischiare il suo status di dilettante.
Il 12 novembre 1892, $ 25 per le sue spese e un bonus di $ 500 per la gara che vedeva di fronte l'Athletic Association Allegheny ed il Pittsburgh Athletic Club al Recreation Park, nel nord di Pittsburgh, una rivincita del 6-6 di qualche tempo prima in cui Pittsburgh aveva schierato uno sconosciuto spacciato per un ragazzo dei dintorni e poi scopertosi essere A.C. Read, capitano della squadra di college di Penn State. La sua presenza provocò diverse polemiche e fu stabilita quindi quella rivincita, in previsione della quale il Pittsburgh Press seguì il tentativo del locale Athletic Club di ingaggiare sia Heffelfinger che Knowlton Ames per $ 250 a cranio. I due rifiutarono e si inserì nella trattativa Allegheny che mise sul tavolo la cifra di 500 bigliettoni. Ames rifiutò, Pudge accettò trovandosi poi in gara attorniato da spalti pieni di tifosi avversari infuriati, fatto sta che la gara finì 4-0 per Allegheny con touchdown dello stesso Heffelfinger su un fumble ricoperto.
La settimana successiva, Allegheny pagò il tight end ex-Princeton Ben "Sport" Donnelly 250 dollari per giocare al fianco di Pudge contro il Washington & Jefferson College. Pur avendo due professionisti nella loro formazione, la Allegheny perse seccamente la gara per 8-0.
Qui inizia il mondo del football pro, e come inizio non fu certo male...

lunedì 4 novembre 2013

The Night The Clock Stopped

Un solo misero secondo.
Un attimo che decide il lavoro di una stagione, in un contesto così effimero come il college football.
4 novembre 1972, al Tiger Stadium di Downtown Baton Rouge arriva Ole Miss per una rivalità che conta già sessanta partite alle spalle ed un grandissimo equilibrio.
I Tigers sognano, hanno una striscia di 11 vittorie consecutive, sono 6-0 in quell'inizio stagione ed i sondaggi li danno #6 della nazione, i Rebels soffrono, in un avvio terrificante dove hanno subito tre sconfitte con Auburn, Georgia e Florida, non vengono considerati in nessuna maniera nel ranking nazionale, avviati ad una stagione anonima nel periodo di declino post-Vaught.
Ma la partita non va proprio come suggerivano i numeri, perchè le motivazioni di una rivalità cancellano come un colpo di spugna tutto quello che c'è stato prima. Si ricomincia da zero, dall'unica cosa che conta in quel momento: battere chi hai davanti, batterlo, strabatterlo, mandarlo nella polvere, lasciarglielo fino al prossimo anno, e se anche finirai la stagione nell'anonimato più completo, non importa, non conta niente, perchè oggi avrai battuto questo tuo avversario e questa è la cosa più importante. Di oggi. Della stagione. Della tua carriera sportiva. Della tua maledetta esistenza.

A poco più di tre minuti dal termine del quarto quarto, Ole Miss guida la partita 16-10 tra le urla del Tiger Stadium, LSU ha fatto letteralmente schifo ed è aggrappata alla sua difesa che costringe i Rebels ad accontentarsi di un field goal, ma è un calcio di quelli che pesano, perchè un +9 equivale a mettersi al sicuro da una segnatura e da una eventuale conversione da due punti. Steve Lavinghouse, il kicker di Ole Miss, già autore di tre field goal in quella stessa partita, fallisce clamorosamente dalle 27 yards e LSU, che qualche secondo prima stava rantolando pronta ad essere azzannata alla giugulare, si ritrova con la palla tra le mani, 80 yard da fare in 3:02, ma ancora viva.
Bert Jones, il QB che andrà a sostituire Johnny Unitas ai Colts al termine della sua carriera universitaria, mette assieme un drive che assume i contorni del disperato miracolo: LSU è subito costretta al quarto down ma riesce a convertirlo, poi nel corso del drive esce di nuovo dall'impiccio di una conversione di quarto, ma questi avanzamenti costano fatica, sudore e, soprattutto, secondi, che scorrono inesorabili, fino a quattro secondi dal termine. La banda di LSU suona Tiger Rag ininterrottamente  da quando la squadra ha ripreso la palla. Il ritmo dei cuori è accellerato.
1&10. Jones riceve lo snap, guarda, lancia su Jimmy LeDoux quello che era già, per quasi tutti, il passaggio dell'avemaria.
Incompleto.
Nonostante la capienza ufficiale sia di circa 67.000 persone, più di 140.000 occhi guardano l'orologio marcatempo. Quanto è passato? Sembra un'eternità. L'orologio segna 00:01. C'è tempo per un'altra avemaria.
Ancora oggi i tifosi di Ole Miss si chiedono come si faccia a concludere due azioni in quattro secondi, in uno sport che tuttavia è giocato su fasi estremamente veloci, in alcuni casi fulminee, se lo domandato tante volete anche Billy Kinard, l'HC dei Rebels, che l'ha messo anche nero su bianco dichiarando che non è umanamente possibile. Tuttavia chiama il timeout per preparare la difesa contro quella giocata da un secondo che vale la gara.
Charles McClendon, il capo allenatore di LSU, guarda Jones e questo gli strizza l'occhio, si sono già capiti pur non andando particolarmente d'accordo. Giocheranno una soluzione che di solito si tenta per le conversioni da due punti: tre ricevitori sulla sinistra in cui Brad Davis, un RB, è il più interno dei tre, Gerald Keigley va nel mezzo di fronte all'All-SEC DB Harry Harrison con LeDoux a fare il ricevitore esterno.
Snap, Jones riceve e prima di aver lanciato la sirena segnala la fine del tempo. Ma non la fine della gara.
LeDoux e Keigley partono con una corsa frontale momento dello snap e Davis corre al piloncino di sinistra con un difensore. Keigley mira a mettere fuori gioco Harrison e quindi prendere nel mezzo il marcatore di Davis, dandogli tempo di ricevere.
Jones vede Davis, carica, lancia. Davis fa un contromovimento per ricevere dando la schiena alla endzone, accecato dai riflettori, allunga la mano, la palla si appoggia e subito Brad la porta a sé e si gira per attraversare la goal line. E' passato un secolo dal suono della sirena. Harrison rinviene e tenta di spingere fuori dal campo Davis prima che questi attraversi la linea di gesso, ma è troppo tardi. Nessuna flag. Braccia alzate del referee.
Touchdown LSU.
Jim Kleipeter, che ha certo dimestichezza con il Tiger Stadium e lo ha visto "urlare" tante volte, afferma che il più potente ruggito che lui ricordi venire dagli spalti fu in quell'occasione, quando il cronometro era già fermo e anche i più lenti a dire l'Avemaria avevano già quasi finito di recitarla.
Tiger Stadium exploded, not in a wall of noise but in a surreal surround-sound of massive vibration that permeated everything, and was, for a moment, frightening. I felt like I might be lifted in the air. I could feel the stadium shaking for the only time in my life but I couldn't hear myself screaming.
Il Tiger continuò a vibrare come in un enorme terremoto senza nemmeno accorgersi che Rusty Jackson si apprestava a calciare la trasformazione che equivaleva realmente alla vittoria, avendo LSU in realtà solo pareggiato con il TD di Davis, ma pare, dalle cronache, che Jackson non ebbe grossi problemi, dando ai Tigers un'altra settimana per sognare, in attesa della gara di Birmingham contro Alabama, da cui ovviamente uscirono sconfitti abbandonando i loro sogni, come a ricordare che la gloria è assai fugace.
A volte, non conta essere la miglior squadra in campo per 59 minuti e 59 secondi: per Ole Miss, la sconfitta fu a dir poco bruciante, tanto che nello Yearbook del 1972, il risultato è riportato "Ole Miss 16, LSU 10 + 7". La vittoria invece è rimasta nell'immaginario collettivo di LSU come una delle più belle, delle più emozionanti, una vittoria talmente indimenticabile da ispirare anche i cartelli di confine tra Louisiana e Mississippi, che per un certo periodo recitarono:
"You are now entering Louisiana. Set your clocks back four seconds."